È una tensione forte che c’è nell’aria: dare i dati, nudi e crudi, senza una interpretazione umana non ha senso. Lo stiamo capendo a suon di conferenze stampa delle 18, di grafici con onde e barre che salgono e scendono, di interventi umorali in televisione. Purtroppo, sono troppo poche le figure capaci di dare significato, divulgare, comunicare l’emergenza Coronavirus; di essere un ponte tra chi sta raccogliendo i dati e il pubblico che non ha gli strumenti per leggerli. Alessio Cuffaro, co-founder di Autori Riuniti e socio della factory creativa Eggers 2.0, ha lanciato ieri un appello su Facebook preciso: cercasi umanista disperatamente.
Ieri abbiamo avuto il miglior dato sui contagiati degli ultimi 16 giorni, solo che a comunicarcelo è stata gente che risulterebbe spettrale anche dovesse comunicarci che nostro figlio è nato ed è in perfetta salute. Ieri infatti sono stati eseguiti un numero davvero molto alto di tamponi e i contagiati su questi tamponi sono stati solo il 16,8% quando tre giorni prima erano quasi il 30%. […]
Ora io lo capisco che è dura, davvero, è la cosa peggiore che possa capitare a un governo e a una protezione civile, ma siamo 60 milioni, abbiamo psicologi di fama mondiale, comunicatori straordinari, intellettuali, scrittori, filosofi. È evidente che adesso serve un contributo umanistico. Serve gente che abbia a cuore la gente, che ne sappia smorzare l’angoscia, e che sappia motivarla a una sfida mai vista. Che a proteggerci dalla bestia virale sia la fredda risolutezza scientifica, purché a descriverci il presente e farci intravedere il futuro sia un umanista!
Una necessità urgente questa che, come sapete, sposiamo da sempre con la ricerca di etnografia digitale, sottolineando come debba essere incentivato il dialogo tra i dati quantitativi e qualitativi per individuare insight e significati a ciò che accade.
Altre riflessioni interessanti arrivano dal primo numero della bellissima e imperdibile newsletter Ellissi di Valerio Bassan, neo digital strategist e product manager de Il Sole 24 Ore.
Le metriche di una pandemia sono uguali per tutti. Ma è il modo in cui usiamo numeri e parole a fare la differenza. Il paese con più morti al mondo non è altro il paese che ha conteggiato più morti al mondo. Il numero dei nuovi contagi avvenuti ieri altro non è che il numero dei nuovi contagi scoperti ieri. Decidere se dare rilevanza al numero degli attualmente contagiati oppure al numero dei nuovi positivi fa la differenza (a questo proposito, se anche tu come me stai faticando a capirci qualcosa, questo articolo può esserti utile).
[…] Nel marketing ci imbattiamo spesso nel fenomeno del measurability bias: la tendenza a scegliere gli obiettivi che ci risultano più semplici da misurare, o quella a preferire un metodo di rilevazione a un altro perché fa apparire migliori i nostri dati.
Allo stesso modo, anche Davide Casati del Corriere della Sera ci aiuta a capire meglio i dati giornalieri che abbiamo a disposizione, suggerendo di tenere in considerazione svariati fattori. Qualcosa si sta muovendo in questa direzione per fortuna, come dimostra anche lo studio Ipsi pubblicato in giornata.
Solo noi esseri umani possiamo mettere in relazione dati e numeri con il contesto (ma anche con gli spazi, i tempi, le variabili sociali) di ciò che sta accadendo. Per il post Coronavirus, dovremmo rimboccarci le maniche per accorciare il cultural-gap tra scienza e umanesimo.
In tempi non sospetti, anche il Direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco aveva dichiarato proprio al Corriere che “per capire la civiltà digitale servono archeologi, storici e filosofi”. Aggiungiamo noi, anche per capire i dati che le macchine raccolgono.
Stento sempre a capire perché molti pensano che uno scienziato politico sappia analizzare i problemi della società odierna e l’archeologo no. Eppure studiare le civiltà del passato permette di sviluppare competenze che sono spendibili in tante professioni contemporanee. Nel mio caso, credo che la mia formazione da storico del mondo antico mi abbia reso in grado di gestire il Museo Egizio. E le dirò di più: con il passaggio da una civiltà analogica a una digitale che stiamo vivendo oggi, c’è bisogno come non mai di umanisti.
Servono storici e archeologi per capire come trasformazioni simili hanno plasmato le civiltà che ci hanno preceduto e occorrono filosofi, sociologi e antropologi per interrogarci sulle conseguenze che il digitale può avere sulla nostra società.
Infine, un paio di giorni fa Alessandro Baricco ha aperto la strada a una riflessione più ampia sul bisogno di contaminazione di saperi, in relazione a questa epoca digitale, con il pezzo Virus, è arrivato il momento dell’audacia apparso su La Repubblica.
Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale.
[…] L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione.